Parità di genere, l’Islanda ha un tasso di impiego femminile pari all’83%, a fronte di una media europea del 66,8% (Eurostat).
Una legge all’avanguardia, l’onere della prova passa alle imprese
In Islanda, il 17 settembre 2021, si è tenuta la seconda edizione della Giornata internazionale della parità di genere salariale. Un evento che ha rappresentato un’occasione per un primo bilancio: quello sui risultati ottenuti da una legge che è stata definita da molti avanguardista. Parliamo di una normativa che è stata introdotta nell’isola nordica nel 2018 e che stabilisce un principio semplice: non sta più alle donne provare che i loro salari sono inferiori rispetto a quelli degli uomini. Sono le imprese che devono giustificare la differenza sul piano retributivo delle donne a fronte di controlli sistematici delle autorità in aziende e istituzioni.
Un’inversione dell’onere della prova che ha rappresentato per le islandesi una piccola rivoluzione. E che ha aiutato la nazione europea a mantenersi stabilmente al primo posto della classifica del Forum economico mondiale in termini di parità di genere salariale (davanti a Finlandia e Norvegia). D’altra parte, l’Islanda è stata da sempre pioniera sul tema: la prima legge volta a ridurre lo scarto nei diritti accordati sul lavoro a uomini e donne risale al lontano 1961. Quindi, il 14 ottobre del 1975, il 90% delle islandesi scese in piazza per reclamare parità e diritti: fu l’inizio di un lungo cammino verso la parità, che ha portato l’isola ad essere anche la prima nazione al mondo ad eleggere una presidente donna a suffragio universale diretto (Vigdis Finnbogadottir, nel 1980).
Il tasso di impiego delle islandesi è pari all’83%, secondo i dati di Eurostat riferiti al 2019. Le donne sono inoltre ben rappresentate in Parlamento, nei Ministeri e nella Pubblica amministrazione. Mentre il congedo parentale è quasi identico per i due genitori.
Obiettivo: raggiungere la parità di genere entro fine 2022
Ciò nonostante, gli ultimi dati di Eurostat indicano che in generale esiste ancora uno scarto salariale non indifferente tra i due generi: pari al 13,9% nel 2019. A posto e qualifiche paragonabili, tuttavia, la differenza scende al 4,3% (era pari al 6,2% nel 2010). L’idea, attraverso la nuova legge, è di azzerare tali dati entro la fine del 2022, grazie alla “regolarizzazione” di 1.180 società, che danno lavoro complessivamente a 147mila persone (anche se si ipotizzano ulteriori 12 mesi di tempo per conformarsi alla legge).
La normativa entrata in vigore nel 2018, infatti, riguarda tutte le imprese con più di 25 dipendenti, nonché tutte le istituzioni pubbliche: anche chi dirige queste ultime è tenuto a dimostrare che i propri lavoratori, a parità di qualifiche, percepiscono redditi identici.
A verificare è un organismo indipendente che concede una certificazione
I controlli sono gestiti da un organismo indipendente, che analizza prendendo in considerazione una serie di indicatori “obiettivi” (anzianità di servizio, formazione, esperienza, valore aggiunto, ecc.) e concede una certificazione, che deve essere rinnovata ogni tre anni.
«Questa legge ha contribuito a generare una presa di coscienza, a rivedere i salari sottodimensionati in numerose aziende e ad introdurre maggiore trasparenza, a vantaggio di tutti», ha sottolineato l’associazione per i diritti delle donne Kvenrettindafelag Islands.
Una valutazione condivisa dall’attuale primo ministro Katrín Jakobsdóttir: «È chiaro che la legge è avuto un effetto», ha spiegato la responsabile dell’esecutivo di Reykjavík all’agenzia Afp.