La Cina ha lanciato lo scorso 1° febbraio il proprio mercato interno della CO2. Si tratta di un sistema che, secondo quanto riportato dalla stampa internazionale, dovrebbe essere simile all’Emission Trading System che da anni esiste nell’Unione europea. E che rappresenta, di fatto, un sistema di scambio di cosiddetti “diritti ad inquinare”.
Come funziona un mercato delle emissioni di gas ad effetto serra
Noto con la sigla ETS (Emission Trading Scheme), il meccanismo si scambio di quote di emissioni di gas ad effetto serra fu lanciato in Europa nel 2005, con l’obiettivo di indurre le grandi imprese del Vecchio continente ad inquinare di meno. L’idea era semplice: fissare un tetto massimo alle emissioni di alcuni agenti climalteranti. Stabilito il valore complessivo accettabile in termini di emissioni cumulate, le aziende e le industrie che, per le loro attività, emettono tali sostanze, hanno potuto ricevere (free allocation) delle quote, chiamate carbon credits. Una di esse corrisponde all’autorizzazione ad emettere una tonnellata equivalente di CO2. Ma, oltre a quelle ricevute, le aziende possono anche acquistarne altre sul mercato ETS. Come fossero un’azione o un altro qualsiasi asset finanziario. In questo modo, si può ottenere il diritto ad inquinare di più. I titoli che però vengono acquistati in aggiunta alla free allocation sono quelli posti in vendita da altre imprese. Che sono state virtuose, hanno inquinato di meno e quindi non hanno utilizzato i loro diritti.
Obiettivo emissioni zero entro il 2060
È del tutto evidente che in un sistema del genere, la deterrenza è data dal valore dei carbon credits stessi. Ed è proprio su questo punto che, per anni, sul sistema ETS europeo sono piovute critiche. Per via di meccanismi legati ai mercati finanziari, infatti, il prezzo è rimasto a lungo estremamente basso. E dunque incapace di convincere le aziende a modificare i propri metodi di produzione per inquinare di meno.
In Cina, la sfida sarà identica. La nazione asiatica si è posta come obiettivo il raggiungimento della carbon neutrality (l’azzeramento delle emissioni nette di CO2) entro il 2060. Per riuscirci, dovrà contenere le emissioni di gas climalteranti in un sistema produttivo che, ad oggi, continua al contrario ad aumentarle. Tenuto conto della crescita economica inarrestabile (anche dal coronavirus) e delle dimensioni della nazione, soltanto se il mercato delle emissioni di CO2 sarà estremamente ben strutturato si potrà ottenere un risultato concreto.
In ogni caso, da solo, il sistema di scambio di quote di emissioni non potrà bastare. La Cina dovrà infatti operare delle scelte strategiche, drastiche e immediate. Se da una parte, infatti, Pechino ha investito moltissimo sulle energie rinnovabili nel corso degli ultimi anni, dall’altro, rimane ancora fortemente dipendente dal carbone. Ovvero dalla fonte fossile in assoluto più nociva per il riscaldamento globale (senza dimenticare le carenze dal punto di vista del rispetto dei diritti dei lavoratori).
In Europa verranno diminuiti progressivamente i carbon credits
Dalle scelte cinesi dipenderà dunque buona parte della capacità del Pianeta di riuscire nella battaglia contro i cambiamenti climatici. L’economia asiatica, nell’ultimo anno pre-crisi del Covid-19 ha infatti emesso qualcosa come 14 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2. Pari al 29% del totale dei gas ad effetto serra dispersi nell’atmosfera a livello globale.
Una chiave per rendere il mercato delle emissioni in grado di fungere da deterrente è legata al quantitativo di quote che il governo di Pechino accetterà siano presenti ed acquistabili. Non a caso, la Commissione europea, per la fase 4 del sistema ETS (fino al 2030) ha previsto un calo annuo del 2,2% dei carbon credits presenti sul mercato. Ciò dovrebbe innescare, per la legge della domanda e dell’offerta, un “effetto rarità” che, si spera, contribuirà a mantenere alto il costo dei “diritti ad inquinare”. Talmente alto da, ad esempio, convincere un’impresa a riconvertire la propria produzione o ad acquistare ed installare sistemi in grado di minimizzarne l’impatto ambientale.
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