La ventinovesima Conferenza delle Nazioni Unite per il cambiamento climatico (in breve, COP29) ha aperto i battenti l’11 novembre a Baku, la capitale dell’Azerbaigian. Questa edizione, partita in salita, è dedicata principalmente alla finanza climatica e prevede un accordo tra i Paesi per cercare di mettere a terra con concretezza i programmi di contenimento delle emissioni.
COP29 di Baku, gli obiettivi della conferenza
Un certo grado di fiducia è riposto nei NDC, i Nationally Determined Contribution, ovvero le “promesse” avanzate dai governi partecipanti relative all’abbattimento delle emissioni di gas serra. Proprio l’estate scorsa il presidente della COP29, Mukhtar Babayev, ministro dell’Ecologia e delle Risorse naturali dell’Azerbaigian, ex dipendente dell’azienda di Stato che si occupa di petrolio e gas, in una lettera aperta aveva sottolineato le due direttrici di azione principali: maggiore ambizione degli impegni nazionali e concretezza.
In cima alla lista delle priorità anche il rafforzamento del Fondo Loss&Damage (Fondo perdite e danni) istituito alla COP27 di Sharm-el-Sheikh, in Egitto, per aiutare i Paesi più poveri e più esposti ai cambiamenti climatici a pagare i danni di inondazioni o carestie. L’obiettivo, inseguito da tempo, è di dotarlo di una potenza di fuoco di almeno 100 miliardi di dollari l’anno. Sulla stessa lunghezza d’onda, sempre in ambito di finanza climatica, anche l’iniziativa della presidenza azera che ha annunciato di voler lanciare il Climate Finance Action Fund (CFAF), alimentato dai contributi dei singoli Paesi e aziende produttrici di combustibili fossili. Il denaro raccolto dovrebbe essere usato per sovvenzionare iniziative che mirano a mitigare gli effetti del climate change sui Paesi più “deboli”.
Senza una finanza climatica seria le perdite saranno incalcolabili
«Mettiamo da parte l’idea che la finanza climatica sia beneficenza», ha detto Simon Stiell, segretario esecutivo della “Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici” (UNFCCC), il trattato internazionale in virtù del quale si organizzano le COP sul clima. «Un nuovo ambizioso obiettivo di finanza climatica è interamente nell’interesse personale di ogni nazione, comprese quelle più grandi e ricche. Senza tagli rapidi alle emissioni nessuna economia del G20 sarà risparmiata dalla carneficina economica causata dal clima».
Ha poi aggiunto, a ridosso degli ultimi giorni della conferenza: «I prossimi impegni che i governi prenderanno in termini di riduzione delle emissioni saranno l’ultima fermata per ogni nazione nella sua lotta contro gli impatti climatici che diventano ogni anno più brutali. E siamo chiari: nessuna nazione sta vincendo questa battaglia. Tutte le economie sono assediate dai disastri climatici, che in alcuni Paesi hanno portato a una riduzione del PIL fino al 5%. E sono le persone e le imprese a pagare il prezzo più alto».
I negoziati restano molto complicati, soprattutto sulla questione finanziaria: i governi UE, secondo il quotidiano Politico, si starebbero confrontando sull’obiettivo di una cifra tra i 200 e i 300 miliardi di dollari l’anno a supporto dei paesi più vulnerabili. La richiesta sarebbe rivolta a tutte le economie più avanzate.
Origini e storia della COP
Tutto ha inizio nel “lontano” 1995 quando si è tenuta a Berlino la prima Conferenza delle parti (COP) della Convezione Onu sul climate change (UNFCCC), il primo accordo ambientale internazionale che abbia acceso i riflettori sul fenomeno del surriscaldamento globale. È più noto anche come Accordo di Rio perché diretta conseguenza dei risultati del summit che si è svolto due anni prima nella città brasiliana.
La prima COP nella capitale tedesca si è caratterizzata per il basso impegno richiesto ai 120 Paesi partecipanti che si sono “limitati” a riconoscere all’unanimità la gravità del cambiamento climatico senza di fatto introdurre soluzioni concrete se non la necessità di fissare obiettivi vincolanti. Per il primo vero successo bisognerà attendere la terza edizione, quella del 1997, al termine della quale ha visto la luce il Protocollo di Kyoto dal nome della città giapponese ospitante, che ha fissato obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra giuridicamente vincolanti per i Paesi industrializzati.
L’accordo ha stabilito una riduzione complessiva delle emissioni del 5% rispetto ai livelli del 1990, da raggiungere entro il periodo 2008-2012: la COP3 è stata caratterizzata da forti tensioni tra Paesi avanzati e in via di sviluppo, in quanto questi ultimi non erano soggetti agli stessi obblighi. Dopo Kyoto si sono susseguiti appuntamenti contraddistinti da stalli, battute di arresto e piccoli passi in avanti. Per sentire aleggiare ancora la parola “successo” bisogna attendere la COP21 del 2015, tenutasi a Parigi.
La “vittoria” di Parigi
Nella capitale francese, infatti, si è firmato il primo vero patto climatico globale che ha riguardato tutti i Paesi aderenti, sviluppati e no: un passo in avanti non di poco conto basato sull’obiettivo comune di limitare l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e di sforzarsi di mantenere il riscaldamento entro 1,5°C. Come ogni accordo diplomatico non sono mancati di certo i compromessi, anzi: si è parlato di “neutralità climatica” preferito alla “messa al bando dei combustibili fossili”, e non si sono compiuti veri progressi sul fronte dei finanziamenti climatici limitandosi a ribadire la necessità di mettere a disposizione 100 miliardi di dollari fra il 2020 e il 2025.
Dubai: dal phase out al transitioning away
COP28, Dubai, 2023: il metro di una decisione che lascia l’amaro in bocca è questione di sfumature, all’apparenza insignificanti, ma in realtà cariche di conseguenze. I delegati, infatti, hanno raggiunto l’accordo all’unanimità su una decisione definitiva in merito agli impegni per limitare il cambiamento climatico. Il testo, però, è stato scritto usando l’espressione “transitioning away”, “allontanarsi gradualmente” in riferimento ai combustibili fossili. Le organizzazioni ambientaliste, l’Unione europea e alcuni Stati virtuosi, invece, avrebbero preferito l’adozione di una posizione più forte e quindi l’utilizzo dell’espressione “phase out”, “abbandonare”.
I risultati ottenuti fra critiche e passi avanti
Nonostante il compromesso, l’accordo è passato ed è considerato un passo in avanti perché si è trattato della prima volta in assoluto in cui si è riconosciuto che tutti i combustibili fossili devono essere superati. Certo non si è trattato di un documento vincolante ma il suo valore simbolico rimane, soprattutto perché firmato nel corso di una COP organizzata in un Paese che compare nella lista dei maggiori produttori di idrocarburi al mondo.
L’importanza di contenere il riscaldamento globale
Tutelare il Pianeta investendo sulla transizione energetica non rappresenta soltanto una scelta etica che punta a costruire un futuro più equo per tutti ma anche un’opzione dalla quale non si può prescindere. Inoltre, è conveniente dal punto di vista economico. Secondo uno studio comparso il 17 aprile 2024 sulla rivista Nature intitolato The economic commitment of climate change e condotto dal Potsdam Institute for Climate Impact Research, i danni provocati all’agricoltura, alle infrastrutture, alla produttività e alla salute umana costeranno circa 38mila miliardi di dollari annui fino al 2049.
Come e quanto investire per invertire la rotta
Lo studio di Nature ha anche sottolineato che per limitare il riscaldamento globale entro i 2 °C rispetto alle temperature preindustriali, come previsto dall’Accordo di Parigi del 2015, sarebbero necessari 6mila miliardi. L’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) ha quantificato una cifra simile e ha parlato di 4.500 miliardi di dollari l’anno dal 2030 nel suo aggiornamento della Net Zero Roadmap, la strategia che punta ad azzerare le emissioni di CO2 entro il 2050 e contenere a 1,5 gradi l’aumento delle temperature globali a fine secolo. Ma secondo recenti stime di McKinsey, saranno necessari capitali ben più voluminosi, in ogni caso inferiori a quelli che si spendono per i danni: si parla di una cifra compresa tra i 9.000 e i 12.000 miliardi di dollari di investimenti ogni anno entro il 2030; una cifra pari a circa il 12% del Pil mondiale.
L’appuntamento con la COP rappresenta un momento di grande importanza nonostante le diverse edizioni ancora non siano riuscite a invertire concretamente la rotta che ci porta verso un surriscaldamento costante del Pianeta. I passi avanti nel campo della presa di consapevolezza, d’altro canto, sono stati centrali e nel tempo hanno consentito di promuovere la transizione giusta e la realizzazione di comportamenti più green ma anche etici e improntati a una maggiore sostenibilità. È anche grazie a questi appuntamenti se la lotta al cambiamento climatico compare fra le priorità di molte istituzioni. Si pensi al Green Deal dell’Unione europea, solo per fare un esempio, che prende le mosse dall’Agenda 2030 delle Nazioni unite, di cui è parte integrante, ma individua obiettivi aggiuntivi, più ambiziosi, come quello di ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990.
La finanza etica per una transizione verso un’economia più sostenibile
Il legame tra lo sfruttamento delle risorse ambientali e le sue conseguenze sul clima, sulla natura e la salute umana, con impatti economici e sociali globalmente negativi, è oggi più evidente che mai a causa dell’accelerazione con cui si manifestano le conseguenze dei cambiamenti climatici sui territori. Un modo per invertire il trend e salvaguardare il Pianeta è orientare i capitali da investire nella direzione di un’economia a basso impatto ambientale e considerare i rischi climatici nelle scelte di investimento. Un solido sistema di gestione dei rischi ambientali, ma anche sociali e di governance, nel sistema di valutazione e quotazione di un’impresa è, infatti, essenziale per tutelare gli investitori. Inoltre, l’integrazione dei criteri di sostenibilità rende le aziende più competitive e le prepara ad affrontare con successo le sfide future. Un approccio di investimento efficace deve necessariamente integrare i criteri legati al cambiamento climatico nella costruzione del portafoglio. La chiave risiede in una strategia che integra i rischi e le opportunità legate al cambiamento climatico in tutte le fasi dell’investimento.
Etica Sgr da sempre esclude dai propri investimenti le società operanti nei settori legati a carbone e petrolio o particolarmente esposte ad attività correlate, orientando le proprie scelte di investimento verso aziende che dimostrano di modellare il proprio business prendendo in considerazione i temi ambientali e sociali. Il cambiamento climatico è un tema centrale anche nell’attività di dialogo con il management delle imprese in cui investono i fondi e di azionariato attivo (esercizio dei diritti di voto connessi alla partecipazione al capitale sociale di queste aziende) tradotto in politiche ambientali di rendicontazione delle emissioni, presenza di target di riduzione delle emissioni e di progetti verso una low carbon economy oltre che di monitoraggio e di assessment dei rischi dei propri impianti produttivi e lungo la catena di fornitura. In questo scenario, la finanza etica svolge, quindi, un ruolo cruciale nell’indurre un cambio di paradigma, favorendo investimenti verso un’economia sempre più sostenibile che si prenda cura del Pianeta e delle persone, e che sia in grado di dare valore nel lungo periodo ai propri risparmi.
Si prega di leggere le Note legali.