Il “mining”, l’attività informatica indispensabile per creare bitcoin, ha richiesto nel 2023 a livello globale 178 terawattora di elettricità, quanto consuma tutta l’Italia in sei mesi e, per di più, il 60% di questa energia è arrivata da combustibili fossili.
L’impatto ambientale del bitcoin
Il bitcoin, e le criptovalute più in generale, sono realtà estremamente energivore. Se l’infrastruttura mondiale dedita alla creazione dei bitcoin fosse uno Stato sovrano sarebbe il 27° per consumo di energia davanti al Pakistan che ha una popolazione di oltre 230 milioni di persone.
I dati provengono dal Bitcoin Energy Consumption Index, che calcola in 98 milioni di tonnellate la CO2 immessa ogni anno nell’atmosfera dalle “fabbriche” di bitcoin, un valore equiparabile alle emissioni annuali di anidride carbonica di interi Paesi, come ad esempio la Grecia. Per compensare le emissioni di CO2 derivanti dalle attività estrattive della moneta virtuale, si dovrebbero piantare ogni due anni 4 miliardi di alberi, occupando un’area pari a quella della Danimarca.
Il “mining” di bitcoin, realizzato tramite un processo altamente competitivo e sostenuto da apparecchiature che diventano obsolete[1] nel giro di circa un anno e mezzo, rappresenta un notevole ostacolo agli sforzi globali per mantenere l’aumento medio della temperatura terrestre entro 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali. E le problematiche non si esauriscono solamente nella CO2 emessa.
Tra il 2020 e il 2021, l’estrazione del Bitcoin ha richiesto una quantità d’acqua pari a 1,65 chilometri cubi (km³), principalmente per il raffreddamento dei data center. Si tratta di un volume equivalente a quello necessario per riempire oltre 660mila piscine olimpioniche. Questa quantità sarebbe sufficiente a soddisfare i bisogni idrici di oltre 300 milioni di persone che vivono in territori soggetti a siccità. Inoltre, l’attività “estrattiva” richiede un’enorme quantità di spazio fisico per ospitare i data center. Si stima che l’area complessivamente interessata a livello mondiale superi i 1.870 chilometri quadrati, un’estensione pari a 1,4 volte l’area di Los Angeles.
La dipendenza delle criptovalute dai combustibili fossili
Qual è la ragione per cui per creare bitcoin si usa cosi tanta energia e soprattutto perché questa tecnologia è cosi fortemente dipendente dai combustibili fossili? I miner utilizzano potenti computer per risolvere complessi problemi matematici che convalidano le transazioni, garantendo così la sicurezza e l’integrità della rete. Come ricompensa per il loro lavoro, i miner ricevono nuove criptovalute, ad esempio bitcoin. Questo processo, tuttavia, è estremamente energivoro, poiché richiede apparecchiature avanzate e un enorme consumo di elettricità, spesso generata da fonti non rinnovabili, contribuendo in modo significativo al riscaldamento globale e a un impatto ambientale negativo.
Il mining richiede che le apparecchiature lavorino senza sosta, al massimo della potenza, 24 ore su 24. È questo che porta a preferire l’energia fossile, dato che l’uso di energie rinnovabili è limitato alla disponibilità di ogni singolo territorio e soggetto a variazioni: uno studio dell’università delle Nazioni Uniti dice che il carbone ha fornito il 45% dell’elettricità totale utilizzata dalla rete di mining globale nel 2020-2021, attestandosi quindi come la principale fonte di energia per l’estrazione.
Non mancano proposte e iniziative che cercano di mitigare i danni. Un passo avanti in questo senso è stato fatto a Baku durante la COP29, dove una una task force internazionale guidata da Francia, Kenya e Barbados ha suggerito di istituire una “tassa globale di solidarietà” su settori inquinanti come le criptovalute, che potrebbe raccogliere 5,2 miliardi di dollari annui per sostenere i Paesi in via di sviluppo e i danni economici del cambiamento climatico.
Anche Greenpeace si è fatta sentire, proponendo una modifica tecnica al sistema con cui vengono creati i bitcoin. L’organizzazione suggerisce di cambiare il codice informatico che regola la loro produzione, con un sistema più efficiente e meno dispendioso, già adottato da altre criptovalute.
Un altro esempio interessante per attenuare l’impatto delle criptovalute è l’utilizzo del calore di scarto generato dall’estrazione di bitcoin per riscaldare serre agricole, soprattutto in ambienti con climi molto freddi.
Limitare i data center a vantaggio di famiglie e industria locale: l’esempio dell’Islanda
Un esempio virtuoso è quello dell’Islanda che, in relazione alla sua estensione e popolazione, ha una presenza significativa di società e imprese dedite alla generazione di bitcoin, ma che ha deciso di limitare l’espansione dei data center per l’estrazione di criptovalute, considerata non in linea con la missione di neutralità carbonica.
La premier Katrín Jakobsdóttir ha sottolineato come l’energia rinnovabile del Paese, derivata principalmente da fonti idroelettriche e geotermiche, debba essere destinata prioritariamente al fabbisogno delle famiglie e all’industria locale, piuttosto che supportare attività altamente energivore come il mining.
Criptovalute: tra innovazione, rischi speculativi e un impatto ambientale critico
Le criptovalute rappresentano ad oggi un investimento ad alto rischio, caratterizzato da una forte volatilità e da incertezze sulla loro resilienza nel lungo periodo. A ciò si aggiungono i rischi di hackeraggio, truffe online e il legame delle criptovalute con le attività illecite. Sebbene basate su una tecnologia innovativa come la blockchain, oggi le criptovalute restano perlopiù strumenti speculativi, con criticità significative in termini di governance e impatto ambientale.
[1] L’hardware per l’estrazione, in medie, viene sostituito ogni 1,5 anni, portando a una significativa produzione di rifiuti elettronici, equivalente al totale dei rifiuti elettronici prodotti dal Lussemburgo. Fonte: Il costo ambientale nascosto delle criptovalute, United Nations University 2023
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