Fast Fashion, l’industria che distrugge ambiente e diritti umani

La moda passa, i vestiti restano. Solo che non rimangono negli armadi, finiscono in discarica. Quello che un tempo era un ciclo annuale di due collezioni – primavera/estate e autunno/inverno – è ora  diventato un flusso incessante di novità, alimentato da un sistema industriale sempre più votato a una produzione massiva incurante del costante accumulo di rifiuti. L’alta domanda, la produzione intensiva, la facilità di acquisto grazie a piattaforme e app, oltre ai margini di ricavo sempre più ampi, stanno causando danni irreparabili all’ambiente.

Sotto la superficie di una maggiore accessibilità dei vestiti si nasconde un impatto ambientale devastante. Come consumatori, siamo facilmente attratti dalle soluzioni rapide proposte dalla moda, ma il vero costo di questa scelta va ben oltre il semplice prezzo ultra conveniente degli abiti. E anche quando cerchiamo di prolungare la vita dei nostri capi, la scarsa qualità dei materiali li porta a deteriorarsi molto più velocemente rispetto ai vestiti realizzati secondo metodi di produzione tradizionali.

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Fast fashion, un ciclo continuo di spreco e inquinamento

Il fast fashion è un sistema che produce vestiti a basso costo, copiando rapidamente le ultime tendenze delle passerelle, e mettendole subito in vendita per sfruttare la forte attrazione del momento. Questo modello di business, che si basa sulla velocità e sull’abbattimento dei costi, alimenta tuttavia un approccio che mette all’angolo la sostenibilità e la durata dei vestiti, oltre alla loro qualità. Il risultato è un ciclo ininterrotto di acquisti e rifiuti.

Le previsioni delle Nazioni Unite indicano che le emissioni generate dalla produzione di tessuti potrebbero aumentare del 60% entro il 2030. Non a caso l’industria della moda emerge come la seconda più inquinante al mondo, subito dopo quella dei combustibili fossili. Secondo quanto riportato da Earth.org, le vendite di abbigliamento sono raddoppiate in soli 15 anni ma, nel frattempo, la durata media di un capo di abbigliamento è diminuita drasticamente. Oggi, rispetto a vent’anni fa, un vestito viene indossato il 36% in meno prima di essere buttato, il risultato sono 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili ogni anno che saliranno a 134 milioni di tonnellate entro il 2030, l’85% dei quali senza alcuna possibilità di essere riciclato o riutilizzato. La maggior parte di questi rifiuti finisce nelle discariche, con gli Stati Uniti che da soli contribuiscono con circa 17 milioni di tonnellate di rifiuti tessili ogni anno.

Impatto ambientale e fast fashion

Il fast fashion è responsabile del 10% del consumo globale di acqua: per realizzare una sola maglietta di cotone si impiegano circa 2.700 litri di acqua, sufficienti a soddisfare il fabbisogno idrico di una persona per oltre due anni,  è inoltre responsabile del 10% delle emissioni mondiali di CO2, superando addirittura le emissioni generate dai voli internazionali e dal trasporto marittimo.
Questo impatto negativo si deve principalmente alla produzione di tessuti sintetici come il poliestere, che richiede combustibili fossili. E poi ci sono le microplastiche: i capi realizzati con fibre sintetiche, come poliestere e nylon, non sono biodegradabili e contribuiscono all’accumulo di plastica negli oceani. Significa che ogni volta che laviamo questi indumenti rilasciamo migliaia di microfibre, che sfuggono ai filtri e finiscono nelle acque danneggiando gravemente gli ecosistemi marini. Un singolo carico di biancheria in poliestere può liberare fino a 700.000 fibre di microplastica.

Fast Fashion, il costo ambientale della moda usa e getta

  • Il 25% dei rifiuti di abbigliamento viene incenerito a livello globale
  • Solo l’8% dei vecchi vestiti viene riutilizzato e il 10% riciclato
  • Gli abiti impiegano più di 200 anni per decomporsi in discarica
  • Il 60% dei nuovi materiali per l’abbigliamento è plastica
  • Un indumento ha una durata media di poco più di tre anni
  • Un capo d’abbigliamento dovrebbe essere utilizzato da 100 a 200 volte, ma viene scartato prima
  • In America, una persona butta via in media 30 kg di vestiti ogni anno
  • Meno dell’1% dei rifiuti di abbigliamento viene riciclato (colpa delle difficoltà nel riciclaggio)

Fonte: businesswaste.co.uk

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Fast fashion: profitti a scapito dei diritti umani

L’industria del fast fashion non riguarda solo l’impatto sull’ambiente, ma alimenta anche gravi ingiustizie sociali, specialmente nelle economie in via di sviluppo. Secondo l’organizzazione Remake, l’80% dei vestiti è prodotto da giovani donne tra i 18 e i 24 anni, a fronte di bassi salari e condizioni e tempi di lavoro spesso fuori dai confini della legalità.

Numerosi studi, tra cui uno del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, hanno documentato l’uso di lavoro forzato e minorile nell’industria tessile in Paesi come Bangladesh, India, Cina e Vietnam. Inoltre, va sottolineato come donne, uomini e minori, che vivono in territori che basano l’economia locale sul riciclo e la produzione di capi d’abbigliamento, siano costretti a convivere con gli effetti collaterali di questa filiera, in un ambiente altamente compromesso dalla produzione industriale intensiva e dalle discariche di vestiti, intrappolate in un circolo vizioso che unisce povertà e degrado ambientale.

I timidi tentativi della politica europea

A livello politico, l’Unione Europea sta provando ad adottare misure concrete per affrontare il problema dei rifiuti tessili e promuovere una moda più sostenibile. Parte del piano include l’obiettivo di raggiungere un’economia circolare entro il 2050 ma già oggi alcuni Stati, come la Francia di Emmanuel Macron, hanno stretto un patto con 150 marchi per migliorare la sostenibilità nell’industria della moda.  Ma senza l’impegno concreto dei consumatori, gli sforzi normativi non bastano: sono le nostre scelte che possono influenzare direttamente la sostenibilità del settore. Per ridurre l’impatto ambientale è essenziale che i consumatori inizino a privilegiare la qualità e la durabilità dei vestiti, piuttosto che la quantità e il consumo rapido. Devono esercitare pressione sui marchi, chiedendo una maggiore trasparenza riguardo alle pratiche di produzione e gestione dei rifiuti, esigendo condizioni lavorative rispettose dei diritti.

L’impegno di Etica Sgr per una moda più sostenibile

Come risparmiatori, possiamo contribuire a una moda più sostenibile scegliendo fondi di investimento attenti all’ambiente e al rispetto dei diritti umani lungo tutta la filiera produttiva. Etica Sgr propone fin dalla sua fondazione esclusivamente investimenti etici, valutando le aziende secondo criteri ESG (ambientali, sociali e di governance), con un’attenzione particolare anche alla catena di fornitura, fondamentale per il settore della moda.

Infatti, l’industria del fast fashion è spesso associata a pratiche poco trasparenti e violazioni dei diritti dei lavoratori nelle catene di fornitura. Per questo, Etica promuove un’attività di stewardship continua con le imprese in cui investono i fondi, per favorire scelte aziendali più responsabili e sostenibili. Questo significa dialogare e chiedere alle aziende di tracciare in modo chiaro la propria filiera, identificare aree geografiche e materie prime più a rischio e attivare sistemi efficaci di controllo e due diligence, anche tramite audit indipendenti.

Oltre alla dimensione sociale, un altro fronte cruciale è quello ambientale: Etica spinge le aziende verso una vera transizione energetica nei processi di produzione, in particolare nella trasformazione delle fibre in abiti, una delle fasi più impattanti dell’intero ciclo produttivo della moda.

Con uno sguardo di lungo termine, Etica Sgr seleziona aziende e Stati che rispettano non solo criteri ambientali, ma anche quelli legati ai diritti dei lavoratori, alla governance, alla trasparenza fiscale e all’assenza di gravi controversie.

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Si prega di leggere le Note legali.

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