Parità di genere, in Italia il divario cresce con il titolo di studio

Parità di genere, in Italia una giovane donna laureata guadagna, in media, il 42% in meno del suo omologo di sesso maschile.

È il divario più profondo di tutta l’area Ocse dove il gap salariale tra uomini e donne laureati al primo impiego è del 17%. A metterlo nero su bianco è il rapporto Education at a Glance 2024, lo studio dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) che fotografa lo stato di salute dell’istruzione, dall’accesso ai percorsi di studio, agli sbocchi lavorativi, ai finanziamenti pubblici.

Tra le altre evidenze che riguardano il percorso verso la parità di genere, è importante sottolineare il dato che riguarda il divario occupazionale italiano tra uomini e donne under 35 senza diploma di istruzione secondaria: solo il 36% delle giovani donne che non hanno concluso gli studi superiori ha un impiego mentre nel caso degli uomini la percentuale sale al 72%. L’Italia, con un tasso di occupazione femminile (20-64 anni) al 55%, è all’ultimo posto tra i Paesi UE, a fronte di una media comunitaria del 69,3%. Inoltre, una donna su cinque rinuncia a proseguire la carriera a seguito della maternità.

Perché le giovani donne laureate guadagnano di meno?

● Minore presenza nelle discipline ad alto reddito: la bassa quota di donne nelle lauree STEM limita l’accesso a professioni meglio retribuite[1].

● Divari occupazionali persistenti: anche all’interno delle stesse discipline, le donne hanno tassi di occupazione e salari inferiori rispetto agli uomini[2].

● Stereotipi e discriminazioni di genere: gli stereotipi di genere influenzano le scelte educative e le opportunità lavorative delle donne, mentre le discriminazioni nel mercato del lavoro ostacolano la progressione di carriera e la parità salariale.

Ed è proprio l’istruzione ad agire come un fattore protettivo per l’occupazione delle donne con figli piccoli: tra le donne con alto livello di istruzione infatti il divario occupazionale tra madri e non madri è contenuto, pari a una differenza di 8,5 punti percentuali.

Ampliare gli investimenti nell’istruzione al fine di diminuire la dispersione scolastica risulta quindi fondamentale perché in Italia la percentuale di giovani, tra i 18 e i 24 anni d’età che hanno abbandonato precocemente gli studi è del 10,5%, a fronte di una media europea del 9,5%.

Investimenti nell’istruzione: Italia sotto la media Ocse ed europea

Tuttavia, i dati mostrano una carenza di investimenti italiani nell’istruzione. Con il 4% del Pil dedicato all’istruzione e alla formazione, l’Italia si colloca al di sotto della media OCSE, del 4,9%, e a quella europea, del 5%. A titolo di confronto in Francia gli investimenti per la scuola raggiungono il 5,5% del Pil, in Germania il 4,7%, mentre in Svezia, Belgio e Danimarca superano il 6%.

Inoltre, l’Italia investe meno anche in termini di spesa per studente e per di più la spesa tende a diminuire al proseguimento del grado d’istruzione, il contrario di quello che succede nella maggior parte degli altri Paesi OCSE. La spesa pubblica media per studente in Italia è di 12.760 dollari a fronte di una media OCSE di 14.209 dollari; per l’istruzione primaria raggiunge i 13.799 dollari ma crolla a 11.739 per l’istruzione secondaria, che comprende le scuole superiori e i licei. La spesa per l’istruzione universitaria, pari a 13.717, non supera dunque quella per le scuole elementari. L’Italia, nella classifica OCSE, si posiziona al penultimo posto per giovani (25-34 anni) con un titolo di studio universitario, sono il 29,2% a fronte di una media tra i Paesi aderenti all’OCSE del 47,4%.

Il ritardo italiano ad adeguare gli investimenti in istruzione agli obiettivi europei impatta negativamente soprattutto sulle famiglie a basso reddito, infatti la condizione familiare di origine degli studenti resta un indicatore significativo del successo scolastico futuro: a livello nazionale, circa 1 studente su 4 (27,5%) proveniente da famiglie in condizioni di fragilità economica raggiunge i livelli più bassi nelle prove Invalsi, rispetto a meno di 1 su 20 (4,5%) degli studenti provenienti da famiglie più benestanti.

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Tassazione e disuguaglianza: la collaborazione internazionale può rendere più efficace le politiche fiscali

Come affrontare la disuguaglianza e sostenere una crescita più inclusiva ed equa? È ancora l’Ocse a provare a rispondere, attraverso il rapporto Taxation and Inequality commissionato dalla presidenza brasiliana in occasione della riunione dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali del G20 avvenuta a luglio 2024.

Lo studio analizza la persistenza delle disuguaglianze di reddito, sottolineando come l’aumento della ricchezza sia più elevato nelle fasce di popolazione più abbienti. In termini concreti, la quota stimata di ricchezza detenuta dallo 0,001% più ricco della popolazione mondiale è più che raddoppiata tra il 1995 e il 2022, passando da circa il 3,3% al 6,9%. Al contrario, la quota detenuta dal 50% più povero della popolazione globale è aumentata solo leggermente, passando dal 1,3% nel 1995 ad appena l’1,9% nel 2022.

In pratica la distanza tra gli onepercenters e gli strati sociali meno abbienti (la cosiddetta “forbice” della disuguaglianza) si fa sempre più ampia. Non solo, i dati Ocse mostrano come a mano a mano che ci si avvicina ai vertici della ricchezza gli oneri fiscali effettivi tendono a diminuire.

Perché questi dati sono importanti quando si parla di istruzione? Perché la scuola è finanziata dalle casse pubbliche che sono a loro volta alimentate dalle tasse sui redditi e da quelle sui patrimoni dei cittadini. Quando si verifica (come in Italia) un’alta evasione o elusione fiscale la qualità dei servizi pubblici – istruzione, sanità, promozione delle pari opportunità finanziati tramite le tasse – ne risente e i primi a rimetterci sono i cittadini e, tra questi, quelli più fragili che non possono permettersi un’istruzione o una sanità privata.

Ecco perché quando si parla di istruzione (come anche di sanità) il discorso finisce per coinvolgere anche la “fedeltà fiscale” delle persone.

Per questo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico con sede a Parigi, afferma che per continuare a fornire servizi di qualità in modo equo e universale occorra “attivare una maggiore attenzione alle politiche fiscali” perché “il più importante canale, attraverso il quale si riducono le disuguaglianze è la generazione di entrate per la spesa pubblica attraverso le imposte”. Una tassazione equa, inoltre, non solo partecipa nel garantire a tutti i cittadini un accesso equo ai servizi, ma contribuisce ad attivare una mobilità sociale ascendente tra le generazioni.

Gli autori dello studio sottolineano, quindi, l’importanza di adottare politiche fiscali fondate sulla cooperazione internazionale, in particolare riguardo la tassazione dei HNWI (High Net Worth Individuals), ossia i grandi patrimoni. L’obiettivo è contrastare l’evasione fiscale, promuovere standard internazionali di trasparenza e creare un maggiore coordinamento internazionale per tassare i grandi capitali in maniera più equa.

Perché Etica Sgr si impegna sulla giustizia fiscale?

Etica Sgr si impegna sul tema della trasparenza fiscale perché questo porta a una maggior giustizia fiscale, quindi introiti che gli Stati possono investire per welfare (istruzione, sanità, sostegno delle fasce deboli della popolazione), innovazione e tutela ambientale, ecc.

La trasparenza fiscale aiuta la crescita. I miglioramenti delle infrastrutture, dello stato di diritto e la fornitura di servizi di base sono parte integrante di un’economia funzionante. La Commissione per la crescita e lo sviluppo, guidata dall’economista premio Nobel Michael Spence, ha scoperto che i Paesi con le migliori performance di crescita sono quelli che hanno investito percentuali più elevate del loro PIL nei servizi pubblici rispetto alle economie meno performanti.

Che cosa vuol dire questo? Fonti di entrate stabili sono fondamentali per la crescita di un mercato.

[1] Le discipline STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) tendono a offrire opportunità lavorative meglio retribuite. Secondo il rapporto Istat del 2022, solo il 16,6% delle donne laureate ha conseguito un titolo in queste aree, rispetto al 34,5% degli uomini. Questa disparità nelle scelte accademiche porta a una minore rappresentanza femminile nei settori ad alto reddito.

[2] Secondo i dati dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato dell’Inps, nel 2022 la retribuzione media annua è risultata costantemente più alta per il genere maschile, con una differenza di 7.922 euro (26.227 euro per gli uomini contro 18.305 euro per le donne).

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